Barcellona – Eintracht, una partita che ha fatto la storia

E non tanto per il 3-2 con cui i tedeschi hanno cacciato Xavi e compagni dall’Europa League

Alain de Benoist diceva che se forse i ribelli non cambieranno mai il mondo, sicuramente il mondo non cambierà mai i ribelli. Applicando la massima al tifo blaugrana, fino a ieri era più o meno lo stesso. Tifare il Barça, a prescindere dal risultato. Un club che fa dell’appartenenza e della fratellanza il suo motto, la sua essenza vitale. Già dall’inno, in verità non troppo diverso da quello di altre squadre, ma tant’è: una bandera ens agermana, una bandiera ci affratella. Per quello che è mès que un club, il senso d’appartenenza è tutto: a partire dall’autonomismo, cardine di un sentire che per decenni ha condizionato -anche tramite attentati ed omicidi- la Spagna politica. Barcellona è la Catalogna, la Catalogna è il Barcellona. In ogni suo aspetto.

Da ieri, però, qualcosa sembra essere cambiato. O forse, anche da prima. La pietra dello scandalo: il Camp Nou invaso letteralmente da 30mila tifosi dell’Eintracht Francoforte per la gara di ritorno dei quarti di Europa League, in cui la squadra di Xavi è perfino finita sotto di tre reti, prima di salvare in parte la faccia con il 2-3 finale nei minuti di recupero . Sembrava davvero di stare al Deutsche Bank Park, anziché in uno dei templi del calcio mondiale dove l’onda blaugrana ti assale, ti avvolge.

Come è potuto succedere? Le regole per il ticketing -la vendita dei biglietti- parlano chiaro: il 5% dei biglietti destinati alla squadra ospite. Regolamenti rispettati, tutto in maniera corretta da parte del club di Laporta. E allora? A quanto pare, sarebbero stati utilizzati canali di vendita secondari, e diversi tifosi dell’Eintracht avrebbero utilizzato carte di credito spagnole per aggirare i divieti. Ciò che inquieta davvero e fa riflettere, è l’indiscrezione secondo cui gli stessi tifosi blaugrana avrebbero messo in vendita il loro posto allo stadio già prima della gara di ritorno, nonostante il Barcellona avrebbe potuto tranquillamente passare il turno: all’andata era finita 1-1, e lo 0-3 subito stava perfino per esser rimontato dagli uomini di Xavi con un finale thrilling.

Su Twitter Enric Masip -leggenda barcelonista della pallamano e consigliere del presidente Laporta- ha apertamente parlato di “tristezza” nel vedere lo stadio colorato nei toni weiß, schwarz und rot -bianchi, neri e rossi- del tifo tedesco. Lo stesso presidente assicura che “vergogne del genere non si ripeteranno più”. La disfatta maturata ieri ha avuto i contorni della beffa su tutti i fronti, nonché qualche preoccupazione sul fronte della sicurezza. Non pochi erano le famiglie catalane, o semplici tifosi, spaventati da così tanti tifosi avversari. Un qualcosa di epocale, uno smacco vero per la tifoseria proverbiale per attaccamento alla maglia e all’entità Barcellona.

La dinamica sconvolge, ma non più di tanto: è il segno dei tempi. E più che una cesura, un taglio netto col passato, in realtà è solo la punta dell’iceberg di dinamiche che da tempo attanagliano il mondo del calcio. Il tifo stesso è diventato non più essenzialmente appartenenza ai colori e alla maglia, ma un sentirsi parte temporanea di quello che è uno spettacolo e niente più. Come a teatro, si va via prima del triplice fischio se la partita si mette male, e questo accadeva anche prima tra le famiglie con bambini, ad ogni latitudine. Vendere i biglietti prima del match di ritorno perchè magari si preferisce il cinema, è tuttavia quanto di più eloquente.

Sta cambiando la storia del tifo? In realtà è già cambiata da anni. Con la globalizzazione fioccano le partite in tv ad ogni orario e accessibili su ogni piattaforma: ora con FIFA+, il Netflix della federcalcio mondiale, si possono vedere i match perfino di Nazionali lontanissime e sperdute. Andare allo stadio è più un divertissement come tanti, che non un vero e proprio rituale. C’erano le tribù del calcio nelle curve, città intere rappresentate nelle gradinate. Ora a vedere Roma, Barcellona, PSG o le squadre inglesi vengono turisti che comprano la maglietta e vivono l’esperienza, più che la partita in sé. Dopo le proprietà straniere, da anni il tifo stesso si è globalizzato e, soprattutto, atomizzato. Il tifoso occasionale ha vinto: se la partita non piace, si va via prima e la serata cambia programma.

C’è un modo per risolvere, per uscirne fuori? Anzitutto, c’è da riconoscere come ormai lo stesso legame covalente tra le big del calcio e le competizioni, si è rotto da anni. Prima era impensabile una Nazionale Italiana fuori dai Mondiali, ora ci stiamo abituando a competere per l’Europeo. E così, oggi ancora più di ieri, lo stesso senso di appartenenza alla maglia azzurra è relegato al grande evento in sé, alla birra Peroni da bere nel camioncino fuori dagli spalti, senza cori e tamburi, portandosi appresso i figli o la fidanzata. Per il Barcellona, a maggior ragione, è lo stesso: la crisi finanziaria che ha portato i blaugrana a competere nella cadetteria europea, dopo anni di Champions League, ha disamorato ciò che già da tempo non era più un blocco compatto, ma una massa indefinita di spettatori, non più tifosi. Nessuno vuole fargliene un torto, ci mancherebbe. Ma così cambia la pelle lo sport, e siamo qui a definire come il serpente cambi la muta.

In un mondo in cui si cercano disperatamente segnali per avvicinare le platee all’ ex gioco più bello al mondo -tra Superleghe e proposte in stile Superbowl-, i fatti di ieri non sono nemmeno la causa, ma la conseguenza. E il silenzio assordante -assordante quanto il casino dei 30mila supporters dell’Eintracht in terra di Catalogna-, è l’ennesimo triplice fischio alla fine del calcio per come lo abbiamo sempre vissuto.

Valerio Campagnoli

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